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Giudizio Su Dante
(Saverio Bettinelli)

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Noi udito avevamo altre volte il nome di Dante, e parlato con lui eziandio. Ma, com'egli per genio è taciturno, e di linguaggio per noi non intelligibile, mai non c'era avvenuto di ben conoscerlo. A soddisfare pertanto la nostra curiosità, si cercò del suo libro, e trovossi in mano d'un accigliato e solitario geometra, che il leggeva a vicenda con Pappo alessandrino e protestava di non gustare altro poeta fuori di questo, in cui trovava lo stesso diletto che negli angoli e ne' quadrati. Io presi il grosso volume, e in un cerchio di greci e di latini sedetti in disparte con esso alla mano. Lessivi in fronte La Divina Comedia di Dante, e parve a tutti titolo strano, essendo noi persuasi ch'esser questo dovesse poema epico, qual tutta Italia predicava, al par dell'Iliade e dell'Eneide, né sapevamo intendere perché Comedia s'intitolasse. E tanto più ciò ne parve, quando trovammo questa Divina Comedia divisa in tre parti, quasi un trattato scientifico, e queste parti intitolate l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Venne in mente d'ognuno, che Dante scherzar volesse e far daddovero una comedia; ma nomi così tremendi e venerabili non ci sembravano a ciò troppo acconci. Ed ecco, leggendo, che io mi trovo preso da Dante per suo compagno, e condottiere in tal faccenda. Per verità, non fui molto contento di quest'onore, e mi venne sospetto che potessimo entrambi fare una figura assai comica in quella Comedia. L'incontrar sulle prime una lupa e un lione alle porte d'inferno mi presagiva male, e il mettere in bocca a me stesso, che i miei parenti eran lombardi, non avendo io mai saputo qual gente si fosse questa se non molti secolo dopo la mia morte, pareami tratto scortese e di poca discrezione.

Mi calmò alquanto il poeta, leggendo de' suoi bei versi e chiari abbastanza in mia lode, e vedendo in quei ricordati il mio poema siccome letto lungamente e studiato da lui. Ma ben tosto la noia mi prese al seguir la lettura. Perché, dunque, diceva io, perché ha fatto Dante un poema dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, se tanto ha letta la Eneide? Io certo non gli ho insegnato a cominciar con un sogno, una lupa e un lione, o con dividere in parti tra lor ripugnanti e lontane un poema. Il viaggio d'Enea, che pur ebbe cotanto sotto degli occhi, è ben diverso dal suo pellegrinaggio in quelle parti sì strane. Ha forse da me imparato a far venire Beatrice a cercarmi, Beatrice la qual era stata chiamata da Lucia, da Lucia che sedea non so dove con l'antica Rachele, e tali ciance da nulla? Che potea saper io di Can della Scala, né del vas d'elezione, che egli t'accoppia con Enea, né di cento siffatte cose? Quanto più si leggeva, tanto meno se n'intendeva, benché ad ogni parola fosse un richiamo, e ad ogni richiamo un comento più oscuro del testo, ma pur così lungo, che il tomo era in foglio. Oh un poema in foglio, e bisognoso ad ogni verso di traduzione, di spiegazione, d'allegoria, di calepino, è un poema ben raro, diceva Orazio, se egli è vero che la poesia debba recare utilità insieme e diletto. Lucrezio stesso sbadigliava, i greci lo nauseavano, alcun non vedea di che si parlasse, e rideva tra tutti Ovidio, dicendo esser quello un caos di confusione maggiore che il descritto da lui.



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