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La Luna Di Carta
(Andrea Camilleri)

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Non c'è dubbio che Camilleri ne ha abbastanza del personaggio che lo ha reso famoso. Negli ultimi libri, a volte, il commissario Montalbano pare la caricatura di se stesso... La luna di carta (Sellerio, 2005) ha una storia (e anche buona), ma si avvicina di più a un giallo psicologico che a un giallo d'azione.
Qui comunque vogliamo soprattutto fare una riflessione approfondita su Andrea Camilleri e sulle sue fortune autorali.

Rispetto agli scrittori veramente grandi, epocali, Camilleri gioca in serie B, per così dire. Lui RACCONTA. Racconta i fatti. E lo fa a beneficio del lettore, non di se stesso, pur se si concede di enfatizzare il fattore dialettale (e ne La luna di carta addirittura esagera). Si propone come scrittore di puro entertainment, e la sua opera sarebbe di scarso interesse (e noi non saremmo qui a parlarne) se non fosse per il curiosum della sua volontà di recuperare l'anima sicula attraverso l'uso (spesso spropositato, come abbiamo visto, e a volte purtroppo impreciso) del vernacolo. (Possibile che non se n'è accorto nessuno? I suoi personaggi parlano ora come bifolchi, ora come professori di Italiano: è come se avessero due anime...) L'operazione di recupero - o, meglio, di esaltazione - della sicilianità risulta vana anche perché anacronistica: arriva infatti in un'epoca in cui la Sicilia, almeno nella lingua e nei costumi, è molto, troppo vicina al resto del mondo. E poi, nei risultati finali conseguiti da Camilleri, siamo ben distanti da un Verga o da un Brancati - per limitarci a due soli scrittori trinacri che nelle loro pagine hanno saputo ritrarre l'Isola (la povera gente nel caso di Verga, gli ambienti borghesi in quello di Brancati) con amore ma anche con drammatica ironia.
Come "fenomeno letterario", Camilleri rappresenta di certo un "input" vivifico in un panorama che da decenni è alquanto sciapito, ma è evidente in lui la furbizia di assoggettare la sua cultura (perché Andrea è, indubbiamente, un uomo colto) alla voglia o necessità di farsi leggere dalle masse; di... vendere. E c'è riuscito. Non si sa come (oggi si fa presto a urlare: "un nuovo scrittore!... una scoperta straordinaria!"), ma c'è riuscito. Bene così. Bene per lui e per chi ama i suoi libri. Per noi sarebbe semmai molto più interessante soffermarsi su un altro caso letterario scoppiato precedentemente in Sicilia: quello di Gesualdo Bufalino. Ma di Bufalino non posso dire molto, in quanto ho letto solo quello che hanno scritto su di lui, non quello che ha scritto lui. (!) (L'arte è tanta e la vita è poca: non c'è tempo per conoscere tutto.)

Ancora qualche parola a proposito dell'uso del dialetto.

Io personalmente sono avverso alla letteratura "dialettale", ma è ovvio che in certi libri è assolutamente necessario legare il linguaggio alla scena in cui la "story" è ambientata. Qualche anno fa lessi A Man In Full di Tom Wolfe, le cui vicende si svolgono ad Atlanta, e mi sono divertito parecchio a leggere i dialoghi nell'americano della Georgia; e bello anche lo slang dei "colored". Il dialetto - di ogni parte del mondo! - ha spesso un carattere pesante, volgaruccio. Tocca all'autore capire dove sono i limiti - sia qualitativi che quantitativi -, e stare ben attento a non superarli.
Secondo me, Camilleri va un po' troppo oltre il limite. Colpa di un attaccamento incontrollato - e incontrollabile - per le proprie radici, evidentemente.



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